lunedì 29 agosto 2011

Le prime a scomparire furono le lucciole


Menzione speciale al premio nazionale di letteratura "Roncio d'oro" 2011







Mancavano pochi giorni a ferragosto, non pioveva da otto settimane e un caldo umido e appiccicoso non lasciava né dormire né stare desti. Ero ritornato a casa insolitamente presto, mi ero messo a leggere le poesie di Seifert, e nonostante il libro mi fosse caduto più volte sulla faccia, dopo un poco mi accorgevo di essere ancora sveglio e di essermi smarrito tra i vicoli e i campanili di Praga.

La sveglia segnava le tre e quarantacinque. I grilli delle campagne finitime tacevano. Il buio silenzioso e senza stelle, fuori della finestra aperta, sembrava un fondale senza tempo.

Stavo seduto sulla sponda del letto, rimuginando i versi del poeta ”I sogni precipitano da una tenebra all’altra/e non sopportano la luce del giorno”, quando un rombo di aeroplano, dapprima remotissimo, si fece più distinto, come un tuono prolungato che giunto al suo culmine tornò lentamente a spegnersi. Allora indossai scarpe e calzoni, afferrai la camicia e cautamente mi feci alla porta.

Passando sul corridoio vidi muoversi l’ombra di mio padre, coricato su due cuscini, ignaro del tumore che da lì a qualche mese lo avrebbe colpito ai polmoni e alle ossa, trascinandolo alla tomba. Mia madre, invece, capii che dormiva dal rumore profondo del suo respiro.

Scesi nell’orto e mi rinfrescai. Un filo di acqua, lasciato appositamente aperto dalla fontanella, scendeva fino ai solchi che con tanta cura mia madre aveva scavato tra i filari stretti di pomodori e fagiolini.

Mi misi seduto nella panca sotto l’albicocco, i cui rami vecchi ed arsi dall’estate si piegavano scompostamente. Tra le chiome dei pini la luna piena, gialla e fosforescente, pareva una delle nostre zucche, che quell’anno, nonostante la siccità, allungavano incredibilmente i loro fusti verso il muro di confine. La torre del castello Farnese, fiocamente illuminata, sovrastava i tetti e il campanile.

Per un momento i grilli nascosti tra le siepi provarono a riprendere il concerto, ma poi anche loro tacquero. Con un bastone cercai qua e là un riccio che notti prima avevo trovato miracolosamente sulla provinciale di Vallerano e portato nell’orto, perché, dicevano, combatte le vipere. Non trovai l’animale, ma giunto nei pressi della tettoia degli attrezzi urtai la vanga, e il rumore disturbò il gatto, che saltò via con uno scatto, si girò e prese a guardarmi coi suoi occhi verdi inquietanti. Nello stesso tempo si sentì il canto di un gallo dalle parti di san Giorgio.


Erano decenni che non sentivo più i canti dei galli, o il coccodè pomeridiano delle galline che fanno l’uovo, né il tubare monotono dei piccioni, i ragli annoiati degli asini, il gracidare sgraziato delle rane, lo stridìo serale delle rondini. Le prime a scomparire, come scrisse nel 1975 il poeta assassinato, sono state le lucciole. Nel mio paese furono le lucciole della strada di San Rocco a fianco dell’orto, quella strada che nelle sere d‘estate della mia infanzia era popolata da frotte di bimbi e ragazzi che correvano appresso agli aligeri fosforescenti, cercando di imprigionarli tra le conche delle mani.

Nei nostri paesi, già a metà degli anni Ottanta, dopo le lucciole cominciarono a scomparire le coccinelle dai nocchieti, le api selvatiche e i vari tipi di farfalle diurne e notturne, gli scardavoni che un tempo giungevano fin dentro i vicoli fioriti. Questi animaletti a forma di scarabeo ci piacevano perché avevano un colorito bellissimo, che cambiava con la diversa luce del giorno, tra il verde, il blu, il viola; li catturavamo presso i roseti, gli legavamo alla zampetta un sottile spago e li lanciavamo in aria recitando: “Vola vola scardavó/che domani è l’ascenzió/, e ssi tu nun volerai/ presto presto morirai!” cominciando a correre insieme a loro, tenendoli vincolati a noi come una specie di minuscolo aquilone, assecondandoli nelle loro giravolte, finché non sparivano definitivamente, lasciandoci in mano il filo con le loro zampette stroncate.

Anno dopo anno sono stati sottratti all’ambiente rurale diverse specie della flora e della fauna che da secoli si riproducevano in armonia coi cicli delle stagioni. Ormai sono un ricordo del passato i campi gialloverdi di camomilla, i crescioni lungo i corsi d’acqua, i gamberi e le rovelle dei fossi. Si sono estinte le piante da frutto locali, come l’uva cornetta e la pèrzica spaccarella. I sindaci hanno fatto radere al suolo i tigli e i gelsi dei viali di periferia affinché i commercianti potessero mostrare le loro insegne scoperte; parimenti, a seguito delle lamentele dei loro elettori, a cui dava fastidio lo sterco delle cornacchie e dei piccioni sui balconi, hanno fatto eliminare i volatili che avevano il nido nei pertugi della torre e del campanile della chiesa di San Silvestro.


Neanche sdraiato sulla panca dell’orto mi riuscì di prendere sonno. In quel periodo, nonostante avessi compiuto da un bel pezzo i trent’anni, non ero vincolato da una attività lavorativa fissa, e dunque ero libero di impiegare il mio giorno come desideravo. Soprattutto le notti d’estate mi trastullavo fino a tardi con amici occasionali, per cui la mattina mi svegliavo non prima delle undici. Il pomeriggio giravo per i paesi dei monti Cimini, in cerca di quelle persone anziane disponibili a raccontarmi le storie, i canti, i proverbi della loro civiltà contadina che spariva inesorabilmente ogni giorno con la morte delle generazioni nate negli anni Venti del Millenovecento. Altri giorni, in compagnia di Ruggero Cencelli, un vecchio spretato del mio paese che conosceva palmo a palmo i siti archeologici della Tuscia, andavamo a perlustrare gli anfratti tra le forre di Fàleri Veteres e i pianori di Fàleri Novi, sperando di trovare un indizio che ci avrebbe condotto in una tomba falisca, non tanto per la brama di un tesoro quanto di riportare alla luce oggetti, utensili, monili di una civiltà sepolta per sempre duemila anni prima.

Quella notte, evidentemente, non mi ero stancato abbastanza. Avevo occupato il territorio del gatto, che continuava a scrutarmi con sospetto. La fantasticheria di alzarmi e prendere una via di campagna per sorprendere l’alba sopra un poggio, divenne un desiderio sempre più cosciente.


Così ritornai a percorrere a piedi la strada delle Fornaci, ove avevamo un nostro podere, come facevamo per gioco da bambini e ragazzi, come avevano fatto per secoli e secoli i vecchi contadini di una volta nel mese di luglio e agosto, i quali, si diceva, preferivano il lavoro alla luce della luna e il pomeriggio lo passavano a sistemare la cantina o la stalla, riposandosi ogni tanto sopra una ripazzola all’aperto. Il lavoro dei vecchi agricoltori, da millenni e millenni, in ogni stagione, si preparava con le prime luci dell’alba. D’altronde se lavoravano da levata a calata del sole, e, soprattutto d’inverno, un po’ per la stanchezza, un po’ per i diversi ritmi biologici, andavano a coricarsi appena cenato, era naturale che si ridestassero all’indomani con le stelle ancora fisse nel cielo. Chissà quante generazioni di antenati avevano percorso a piedi quella stessa strada, giovani e vecchi, con le mani libere o con la falce alla cinta, la zappa sulla spalla, le donne coi panieri sulla testa o qualche moccioso di bambino in braccio. Quanti in quel tratto di strada avranno pensato che le loro fatiche sarebbero state utili per meritarsi la grazia di Dio, per guadagnarsi il pane onestamente, per vendere il poco ricavato, mettere da parte i soldi in caso di malattie o disgrazie, ampliare a poco a poco la proprietà e lasciare un po’ di robba ai figli invece dei debiti e della miseria. Quanti altri, invece, avranno considerato più razionalmente che l’unico mezzo per uscire dalla povertà si fosse realizzato mediante gli affari, le compravendite, i mezzucci poco leciti, in bando agli scrupoli morali.

Nei pressi del casale diruto dei Pasqualotto sentii il fiato pesante del barbagianni e le strida delle civette. La luna me la trovavo ora di fronte, ora tra le fronde degli alberi, ora appollaiata sul crinale di una collina, a seconda delle svolte della strada.

Giunto all’edicola votiva della Madonnella s’alzò un filo di brezza fresca e il cielo cominciò appena a schiarire lasciando intravedere la nobile sagoma del monte Soratte sul fondo dell’orizzonte.


Presi gli attrezzi necessari nel casaletto e lavorai senza sosta fin verso le sette, quando fu giorno pieno e la sete cominciò a farsi sentire.

Siccome non mi ero portato nessuna boccia d’acqua e sapevo che poco lontano c’era una sorgiva, pensai di andarmi a dissetare laggiù, passando a rocchio, ossia discendendo la costa boschiva fino al fosso di Gricciano e risalendo attraverso piccoli appezzamenti altrui. Centinaia di anni fa tutta la collina di qua e di là dal fosso apparteneva agli Alessi, antenati di mia madre. Sicuramente, quando l’avranno avuta in enfiteusi dal Comune, era un esteso bosco di querce e di ornelli che le generazioni successive hanno sradicato per farne camporili di vigne e di grano.

Guadai con facilità il fosso quasi asciutto, incredibilmente sporco di pezzi di ferro, di plastica e di materiali vari che i soliti imbecilli continuano a scaricare dalle loro auto, allorché ritengono di andare a fare una “salubre” passeggiata in campagna. Ai tempi della mia adolescenza questo fosso era rigoglioso di acque che scendevano giù dai monticelli boscosi della Selva. Bastava scarmucinare con le mani tra i sassi del greto per catturare i gamberi dal dorso marroncino o rossastro.

Quel giorno non ritrovai subito la fonte. I nuovi proprietari del fondo avevano cancellato il viottolo d’ingresso ed eretto una recinzione di filo spinato su cui lasciavano pascolare le capre. Quando comunque vi giunsi, seguendo un altro percorso, non potei non rimanere deluso: la piccola vasca era invasa dall’edera e un piccolo rivolo appena scendeva giù dal canale sotterraneo, perdendosi in un fossato in cui si abbeveravano le bestie. Considerando che bere a quella fonte poteva essere pericoloso, causa i diserbanti che con nessuna accortezza spargevano a tonnellate nei terreni a monte, misi le mani a conca e sorseggiai un poco, giusto per ricordare il sapore e inumidirmi le labbra.

Fu soltanto tornando indietro, facendo lo stesso percorso a ritroso, che mi resi incognito spettatore di un fatto a dir poco inquietante. Nei pressi delle arcate di un ponticello due operai scaricavano da un furgoncino certe sagome nere, che spingevano dentro il fosso. Mi avvicinai senza farmi notare, quel tanto per poter constatare che quegli energumeni buttavano dentro il fosso diverse vecchie gomme d’auto e pezzi di ferro. D’istinto avrei voluto gridare per farli scappare, ma l’eventualità che potevano essere loro a farmi scappare, magari soltanto per impaurire un testimone, mi fece più cauto. Non appena ebbero finito il loro insano compito il più giovincello si attardò a cogliere le more, mentre l’altro risalì a bordo del mezzo, minacciando il compare di lasciarlo a piedi, perché “certi lavori vanno fatti in fretta di notte e se stavolta l’avevano fatto alla luce del sole era tutta colpa sua che non si era svegliato in tempo”.

Quelle persone inqualificabili, per poter risparmiare qualche soldarello sui costi dello stoccaggio dei materiali inquinanti, giravano di notte le contrade di campagna, smaltendo così gli scarti delle loro officine. Pensavano di essere furbi, ma non si rendevano conto che se tutti i giorni dell’anno, in tutte le fabbriche, fabbrichette, officine, aziende agricole del mondo, artigiani, agricoltori e cittadini senza coscienza civica ed ecologica avessero riversato nei fiumi e nel sottosuolo i loro rifiuti tossici, l’avvelenamento mortale del pianeta e dell’essere umano sarebbe stato un processo irreversibile.


Tornando a casa mi vennero in mente i siti delle altre fonti di campagna che conoscevo. Chissà in quali condizioni fossero, se i vecchi agricoltori avessero continuato a curare le sorgive di Fontana Majo, di Pisciarielli, delle Pantana. Oppure era tardivo il rimpianto, giacché questo fasullo progresso ne aveva già fatto scempio. Intorno alle fonti del Barco, dei Sarvani e del Cerreto, che nutrono il paese mediante acquedotti, un tempo parco di caccia della potente famiglia Farnese, le ultime amministrazioni pubbliche avevano dato il permesso per costruire nuovi quartieri. Anche nei pressi della fonte dell’Acquaforte stavano iniziando delle lottizzazioni. La fonte di Peccio continua a scorrere copiosa, ma sembrerebbe non potabile. Uno sviluppo agricolo, urbanistico, edilizio senza regole e con la quiescenza delle pubbliche autorità, ha sconvolto il paesaggio. Il sistema irrigativo dei Quarti della Bandita, costruito all’inizio del secolo scorso, che negli anni Cinquanta permise un ciclo di coltivazione di pescheti e nocchieti, fonte di indubbia ricchezza per le famiglie, oggi è stato quasi del tutto abbandonato e in ogni appezzamento è stata eretta una casetta abusiva.

Giunto a casa trovai mia madre che era già scesa nell’orto e con una zappetta rimuoveva le patate sotto terra. Mi disse che il caldo di questo agosto avrebbe bruciato il raccolto alle Fornaci e si sarebbero salvati solo gli impianti irrigativi. Gli risposi che non valeva la pena affrontare la spesa di un impianto per mezzo ettaro di nocchieto. “Lo so” disse, “ma rìcordite sempre, che dar poco vène l’assai”.

Sarà stato il sole alto, la luce intensa, il sonno perduto, fatto sta che da un momento all’altro un forte bruciore agli occhi e una repentina spossatezza mi costrinse a salire nella mia camera e buttarmi sul letto. Mio padre, che in quel momento stava passando lo spazzolone, come al solito con l’immancabile sigaretta tra le dita ingiallite dal fumo, senza guardarmi in faccia mi disse per l’ennesima volta che quelli che tornano a casa al mattino fanno tutti una brutta fine, e lui a quindici anni si alzava alle cinque di mattina per prendere il treno per Roma, dove faceva il garzone apprendista in una officina. “E poi è tempo che ti crei un futuro…” aggiunse a mezza bocca. Non mi andava di spiegargli che la sera precedente ero rientrato presto e poi ero uscito di nuovo all’alba per andare a tagliare i frusti al nocchieto. Se anche gli avessi risposto che il futuro se lo erano accaparrato i ruffiani, gli ignavi e i truffaldini, lui, che aveva lavorato ininterrottamente per cinquantacinque anni e adesso si godeva una misera pensione, forse non mi avrebbe capito.

sabato 14 maggio 2011

VOTO E NON VOTO

Vi sono dei momenti particolari in cui i cittadini non votano per protesta contro i partiti, contro una politica corrotta, contro i politicanti ladri e privilegiati. Io li comprendo e li giustifico, supposto che il loro rifiuto del voto sia occasionale ed eccezionale.


Votare il meno peggio, come sento dire sempre più spesso, mi pare come prendere un farmaco spacciato per medicina, che in realtà ci fa l'effetto di un veleno a più lente dosi. Stimo di più chi non vota e poi tutti i giorni ci offre un esempio di correttezza e di impegno nella cultura e nel sociale, rispetto a chi vota, magari per un interesse suo clientelare e ogni giorno dà cattivo esempio con la paraculaggine e la disonestà.
In questi ultimi anni ho creduto che l'Italia dei Valori fosse un partito "nuovo", nel senso che l'impegno politico di questo partito fosse strettamente legato ai fondamentali valori umani che la politica di destra e di sinistra calpesta impunemente ogni giorno. Invece ho dovuto constatare personalmente che non c'è partito peggiore dell'Italia dei Valori: peggio di tutti gli altri. Mi spiego meglio. Apprezzo l'attività parlamentare di Antonio Di Pietro e dei suoi gruppi parlamentari, le molte iniziative sul territorio a carattere nazionale, come gli ultimi referendum. Ma è la forma partito, soprattutto nelle province, che non funziona, che è un carrozzone di riciclati di altri partiti, oppure di mediocri e senza scrupoli che quotidianamente si beffano, per mezzo del loro comportamento, dei valori umani. L'IDV è inesistente sul territorio, non fa nulla per combattere le male amministrazioni locali; e coloro che hanno provato a far qualcosa come dei donchichiotte sono stati lasciati soli. Io, nonostante avessi conseguito il risultato migliore nel viterbese alle regionali 2010 sono stato scaricato dall'IDV perché volevo fare una politica seria e combattere il malaffare di Fabrica. Giovanni Francola è tollerato perché non dà fastidio a nessuno e fa una politica ad personam. D'altronde le critiche che sto facendo adesso, frutto di esperienza personale, molti mesi fa sono state frutto di uno studio approfondito sul partito pubblicato in Micromega. L'IDV è un partito senza futuro, che verrà assorbito dal PD quando i risultati elettorali di Beppe Grillo e la politica sul territorio dei grillini sposterà il consenso dall'IDV a questi. I grillini nascono dal territorio, dalle esigenze locali, dalla voglia dei cittadini di ribellarsi ad un politica corrotta e mafiosa. Annni fa, al loro apparire, i grillini non votavano. Ora si stanno organizzando e partecipano direttamente alle elezioni in un modo limpido e corretto che gli altri partiti non conoscono. I non votanti, grazie ai grillini, stanno ritornando al voto. I grillini stanno dando speranza ad un popolo bue, umiliato e offeso. Il movimento a 5 stelle non è un partito azienda, che apre succursali in ogni provincia e paese. L'IDV aveva mandato un commissario nella provincia di Viterbo, uno stipendiato, ex PD, che non trovando occupazione in quel partito, si era inventato questo nuovo ruolo, facendosi gli affari suoi invece che quelli dei cittadini. I grillini ci sono a Viterbo, si sono auto organizzati a Vetralla, Canino, Tuscania. A Fabrica non ci sono ancora. Io potrò dare un imput, un incoraggiamento, una collaborazione. Ma non sarò io a formare un gruppo, sarei più contento se fosse un giovane, un cittadino incazzato, qualcuno che crede all'idea di formare una rete per il bene comune e così possa avere una speranza per il futuro. Altrimenti... non votate... oppure ingurgitate la cicuta a piccole dosi.

venerdì 13 maggio 2011

LE LISTE DELLA DISGREGAZIONE

Le elezioni del prossimo 15 maggio non decideranno un bel niente per il futuro di Fabrica di Roma. Non saranno queste elezioni, guidate dai partiti mascherati da liste civiche, a far si che il nostro paese possa diventare una comunità amministrata con trasparenza e con legalità, nel rispetto del bene comune.


Se l’Italia deve ancora uscire dall’ultima fase del medioevo, quello tecnologico, e il cui uso dei mass media da parte dei potentati economico politici rende il cittadino una specie di suddito, di poveraccio che si crede libero e ricco perché vive in un contesto di corrività e di consumismo, pensate a Fabrica come una specie di colonia di basso impero. Forse internet, l’uso interattivo e in un qualche modo giornalistico anche di facebook, in un prossimo futuro può aiutare a liberarci da uno stadio di soggezione nei confronti delle istituzioni e dei partiti che le amministrano.

Il nostro paese non è una comunità in senso civico, non lo è mai stata. Non ha una storia vera e singolare come Ronciglione e Civita Castellana, solo per fare degli esempi di cittadine a noi vicine. Le amministrazioni comunali, soprattutto dal 1988 ad oggi, invece di aiutare a migliorare gli strati sociali e imprenditoriali del paese, col silenzio assenso delle inerti e compiacenti opposizioni, li hanno quasi affossati. I politicanti di Fabrica non se ne sono accorti che qui l’agricoltura e l’artigianato stanno scomparendo, e l’industria, seppure di importazione, si è eclissata. Il paese ha conosciuto una notevole espansione edilizia tra il 1961 e il 1981 (893 nuove abitazioni, a cui vanno aggiunte le 208 del decennio successivo) Ma ci fermiano a vent’anni fa, giacché nella relazione tecnica del Piano Regolatore non sono presenti dati aggiornati all’ultimo ventennio. Gli abitanti dal 1965 ad oggi si sono triplicati, e al 28 febbraio scorso sono giunti a ben 8533. C’è dunque una densità territoriale di circa 242 ab/kmq, molto superiore della media provinciale (79 ab. Censimento ISTAT 2001), e maggiore anche della media nazionale (186,9 ab. Censimento ISTAT 2001). Degli 8533 residenti sono di origine straniera 993, di cui 426 romeni e 334 extra comunitari.

Le famiglie tradizionali di Fabrica sono diventate una minoranza, e quelle comunitarie ed extra comunitarie, insediatesi prevalentemente nel centro storico, stanno dando una fisionomia particolare al cuore del paese – qualcosa che inquieta e turba quelli come me, fabrichesi per parte paterna e materna da molte generazioni, i quali assistono con sgomento, giorno dopo giorno, alla sparizione di scorci urbani, di ambienti rurali, di vivi brandelli di un paese che non ha più le caratteristiche di un paese ma neanche quelle di una città. L’amalgama di etnìe, invece di vitalizzare la cultura – sia in senso umanistico che antropologico - mi pare che abbia un po’ paralizzato la dinamicità e un certo estro inventivo, che il paese ha conosciuto nei decenni e nei secoli scorsi. Non possiamo mentire e nascondere il fatto che Fabrica è diventata un paese dormitorio, con quartieri costruiti appositamente per i forestieri, venuti qui soltanto per l’economicità di un appartamento rispetto ai prezzi della capitale.

Sette liste alla competizione elettorale per il rinnovo del sindaco e del consiglio comunale sono l’indubbio segno di una disgregazione sociale prima che politica, l’incapacità e la riottosità ad aggregare le forze e i talenti, un certo individualismo subdolo e interessato solo ad affermazioni ed interessi economici personali. Ma è anche da ricordare che non è una novità perché altrettanto sette furono nel 2001 e sei nel 1993. Se da anni stigmatizzo il comportamento egoistico dei pubblici amministratori e rinnovo il mio giudizio negativo nei confronti di sindaci che hanno amministrato e di consiglieri che si sono limitati al compito di alzamano, non posso dar la mia fiducia a quelle liste che si dicono diverse, che vogliono affermarsi con la demagogia delle formule, sostanzialmente incapaci e nolenti a stroncare il marcio incancrenito da decenni. Dunque, chi votare, a chi dare la fiducia per non fare in modo che quella crocetta sulla scheda non diventi una grossa croce da portare sulle nostre spalle per altri cinque anni?

Esaminiamole una per una.

Lista Alveare, candidato a sindaco Giuseppe Palmegiani.

Codesta lista con il suo capolista deve la sua perdurante esistenza ad un centro sinistra litigioso, narcisista e disponibile agli inciuci, che non si è mai opposto seriamente al malgoverno di Palmegiani. Il geometra in questione, circondato peraltro da vari geometri e architetti, in questi 23 anni che amministra il paese non è stato capace e non ha voluto realizzare un parco pubblico a Fabrica e al Parco Falisco, che sostituisse degnamente gli angusti e anacronistici “giardinetti”. Non ha voluto realizzare un ampio parcheggio per il centro storico. Non ha mai richiesto finanziamenti per realizzare un parco archeologico a Faleri Novi. Non ha neanche fatto uno schizzo per una casa per anziani, di cui sono dotati tutti i paesi del circondario. Non ha portato avanti i lavori per il depuratore delle acque reflue, sottraendoci però per diversi quinquenni la tariffa relativa sulla bolletta dell’acqua. Non ha voluto costruire i loculi al cimitero (non ve ne sono più dal 2003) né ha permesso che le famiglie, nel rispetto di un opportuno regolamento, potessero costruire in proprio ed in economia cappellette funebri, costringendo così, chi non ha prenotato loculi prima del 2003, alla sepoltura coatta sotto terra. Forse perché poi i familiari dei defunti vanno a chiedere allo stesso Palmegiani di edificare la tomba di famiglia? E’ risaputo che da decenni il Palmegiani esegue lavori da marmista al cimitero, ossia in un settore dell’amministrazione che lui dirige, mettendosì così in un palese conflitto di interessi. D’altronde il vizio di affidare lavori a propri parenti è stato emulato dall’attuale assessore Viggi, che ha affidato al figlio la realizzazione dei marciapiedi al Parco Falisco e l’adeguamento del Teatro Tenda . Figlio che peraltro si è candidato al posto del padre. Per non parlare del Piano Regolatore ad personam, in cui diversi terreni appartenenti agli stessi amministratori o stretti parenti, hanno avuto la fortuna di un innalzamento di indice (e dunque di valore economico) approvato, a turno, da loro stessi. Per non parlare di altri parenti che hanno vinto casualmente – e sottolineo casualmente - diversi concorsi pubblici. Insomma questi sono solo alcuni esempi di amministrazione che fa tutto meno il bene comune e che non voterò assolutamente. Se debbo esprimermi con un voto gli infliggo un bel 4.

Lista Civica per Fabrica, candidato a Sindaco Mario Scarnati.

Il candidato è già stato sindaco tra il 2001 e il 2006, quando si affermò grazie alla lista concorrenziale di centrodestra che disperse il monte dei voti del centrodestra ufficiale. Come quella di Palmegiani è una lista ad personam, dove, qualora dovesse vincere, assessori e consiglieri comunali direbbero sempre di si alle scelte dello Scarnati… giusto per non essere estromessi dal club del laghetto di Cerveno. A suo tempo non mi piacque il suo sfrontato autoritarismo, le scelte amministrative volte ad appagare più la sua fantasia che il bene comune. Quando ci ha indebitato per comprare il palazzo e il parco Cencelli sono stato d’accordo sull’oggetto ma non sulle modalità.. Il bene storico poteva essere acquisito senza spendere un euro, giacché il Ministero dei Beni Culturali offre dei contribuiti per l’acquisto di palazzi storici, purché se ne faccia sede di museo. E invece lo Scarnati ha spostato la sede comunale in questo palazzo soltanto perché aveva una forma di castello e lo gratificava sentirsi il primo castellano. E non ha pensato a come far fruttare l’ex sede municipale di via della Pace, tuttora chiusa e in stato di fatiscenza. Non mi piacque che licenziò a suo tempo un assessore soltanto perché non condivideva una sua singola scelta amministrativa: Non mi piacque quando abrogò la commissione edilizia con la scusa di facilitare le concessioni edilizie, ma contemporaneamente avviò la sua nuova attività di imprenditore edile in loco. Non mi piacque che abbia speso qualcosa come 15.000 euro per commissionare lo studio urbanistico di una nuova piazza che non ha mai realizzato, e poi ha trasformato l’attuale piazza Duomo, l’unica piazza del paese, in una stretta via per potervi allogare una specie di giardinetto pubblico, le cui piante hanno nascosto le bellezze della chiesa romanica di San Silvestro per diversi anni. Non mi piacque, infine, l’ambiguità sulle votazioni della variante del Piano Regolatore, in cui non si è presentato per ben due volte, lui e i suoi sodali, dichiarando nel bugiardino elettorale di essere a favore dell’approvazione in Regione Lazio del Piano Regolatore ad personam. Voto 5

Lista Fabrica Pulita, candidato a sindaco Ornella Angeletti.

Questa lista si presenta ai cittadini come una lista che ha fatto opposizione all’ultima giunta Palmegiani. Niente di più falso. Come può dirsi lista pulita se non ha mai pensato di rivolgersi alla Prefettura per contestare lo stesso simbolo della lista Alveare, che da decenni si è appropriata dello stemma del Comune di Fabrica, ossia il braccio con le api, in spregio del comma 3 dell’art. 6 dello Statuto Comunale? Che genere di pulizia è quella di dichiarare sui bugiardini elettorali di non veder l’ora che la Regione Lazio approvi il Piano Regolatore ad personam, salvo contestarlo, in sede privata, di fronte alle persone che non lo apprezzano, giusto per assecondarli e carpire il loro voto. Ecco, quest’ultimo esempio ci dà l’idea di come questa lista sia guidata da un gruppetto dirigente abilissimo a fare demagogia, ossia ad accaparrarsi il favore della popolazione non cercando di distruggere il marcio esistente, ma facendo leva sui sentimenti legittimi delle grandi paure ecologiche. Dicono di aver condotto una grande battaglia contro la realizzazione di un impianto di generazione di energia elettrica alimentato ad olio di palma, facendo credere che fosse inquinante e pericolosissimo per la salute dei cittadini, omettendo di specificare che l’olio di palma è accreditato come energia rinnovabile dalla comunità europea. In realtà è più facile fare demagogia che mettersi a studiare le delibere e le attività amministrative, censurarle ed eventualmente, se infarcite di interessi privati, segnalarle alla magistratura. Mentre hanno lanciato l’allarme per opere di là da venire si sono stati zitti sulle opere esistenti che danneggiano l’ambiente, inutili e costose per la collettività: silenzio su di un ettaro di pannelli solari, ecologici senz’altro, ma impiantati in una delle campagne più belle di Fabrica, a Vallecchia, in prossimità del bosco della Selva; silenzio sulle fabbriche che non hanno depuratori e scaricano i liquami senza filtrarli; silenzio sul mancato cronico controllo di impiego di fitofarmaci in agricoltura, quelli a base di arsenico, lo stesso arsenico che ci ritroviamo nelle fonti d’acqua; silenzio, o meglio nessuna segnalazione ai consiglieri regionali del PD per far prendere provvedimenti improcrastinabili per la pulizia delle quercie che crescono sulle mura di Faleri Novi; ancora silenzio per il degrado del cimitero comunale e del Parco Cencelli di fattura rinascimentale; nulla per segnalare alla corte dei Conti lo sperpero di denaro pubblico per 4 varianti di piani regolatori fasulli (il primo fu bocciato nel 1978) e per altre cattedrali nel deserto come la scuola per l’infanzia adibita a magazzino, oppure la parallela alla strada del Quartaccio, comprensiva di pubblica illuminazione e diventata un ricettacolo di materiali ingombranti. La stessa candidata a sindaco viene spacciata come un “volto nuovo” quando in realtà, insieme al nucleo di questa lista, ha fatto la pasionaria di Scarnati alle precedenti elezioni, staccandosene soltanto due anni fa. Gli dò comunque il voto di 5 e mezzo per la presenza di alcune persone in buona fede.

Lista Si Cambia, candidato a sindaco Giovanni Francola.

E’ una lista di una persona, Giovanni Francola, che è diventato un personaggio, tale è la sua manifesta brama di giungere in ogni modo al cosiddetto “successo”, usando la strada della politica e cavalcando un partito che stima o disprezza a seconda dell’allocco a cui deve carpire il voto. Successo e interessi personali, giacché ha dichiarato che il piano regolatore, in sede di approvazione da parte della Regione Lazio, è un ottimo piano regolatore – ahi, un suo terreno agricolo in campagna, piuttosto lontano dal centro abitato, è diventato verde privato, acquistando di indubbio valore!. Fino alla tenera età di 50 anni non si è mai occupato di tutelare l’ambiente in cui vive. Poi, col fine di promuovere una fabbrica di riuso di pneumatici, è entrato in politica, e grazie a me, che non avevo capito le sue reali intenzioni – ero allora presidente dell’IDV di Fabrica - si è fatto candidare alle elezioni provinciali del 2010. E’ stato eletto consigliere provinciale con la dote di voti che sono riuscito a conseguire in cinque anni di lavoro sul territorio, più un appoggio di Scarnati, il quale, per motivi ancora poco chiari, aveva dato ordine di votarlo. Subito dopo essere diventato consigliere ha cominciato a lavorare per candidarsi a sindaco, dimostrando così disprezzo per l’elettore che lo mandato in provincia per fare il consigliere, non per giocare a suo piacimento con la politica. E’ un gioco che ha comunque i suoi sponsor, dal momento che non lesina per l’apertura di sedi di comitati elettorali, di manifesti e di programmi in ampi opuscoli di carta patinata. Il suo programma elettorale è il più bel bugiardino in circolazione, pieno di favolette con disegni per bambini, studiato da un ufficio di pubbliche relazione che sa come ingannare gli elettori. Lo stesso ufficio gli ha consigliato di farsi crescere il pizzetto bianco da vecchietto saggio e circolare sempre con il pc portatile per dare l’idea di una persona impegnata. Si, impegnata a bluffare! Assolutamente da sconsigliare per il voto, che qui si prende un bel 3.

Lista Lega Falisca, candidato a sindaco Fabrizio Caponi

Eccoci arrivati alla lista concorrenziale alla lista di Palmegiani, che lo sfida sul terreno ideologico della destra. Certo, la lista di Caponi è una lista di destra idealista, che non ha nulla a che vedere con gli interessi costituiti in loco, anzi è una destra che contesta questi interessi. Di debole ha il fatto di essersi costituita con ritardo e non essere riuscita ad aggregare i cittadini intorno a temi forti e per giunta di rappresentare più Parco Falisco e Falleri che Fabrica paese. Ho un’amicizia personale con diversi candidati e posso assicurare sulla bontà dei loro intenti e sul fatto che, al di là del risultato che conseguiranno, intendono proseguire anche dopo le elezioni ad occuparsi della Cosa Pubblica e degli interessi collettivi. Voto di incoraggiamento 6 piu’.

Lista Comunisti della Tuscia, candidato a sindaco Maria D’Alessandro

Non so che valore può avere al giorno d’oggi definirsi ancora comunisti e vivere una vita da occidentali e da consumisti. La lista della D’Alessandro, come le altre liste delle trascorse elezioni è figlia sia del suo narcisismo che della volontà della sinistra fabrichese di isolare questa persona, che, peraltro, seppure in modi spesso ambigui e appariscenti, ha sollevato problemi reali. Credo sia una lista per la sopravvivenza politica sua e di suo marito, Stefano Di Meo, ex assessore di sinistra alla provincia. Voto 5.

Lista Forza Nuova, candidato a sindaco Danila Annesi

Conosco da molti anni la candidata a sindaco e posso dire che è una persona mossa da istanze ideali e per niente affaristiche. Certo, io sono molto distante dall’ideologia di destra pura e dura di Forza Nuova, ma ci sono in questo partito dei punti in programma che non si possono stigmatizzare a priori, come la messa al bando della massoneria e delle sette segrete, la fuoriuscita dalla Nato e lo sganciamento dall'orbita statunitense, la lotta contro l'usura e l'azzeramento del debito pubblico. E’ una lista di testimonianza, che ha un solo fabrichese al suo interno e quindi non soggetta al voto.

martedì 8 marzo 2011

Cultura locale e cultura da spettatore


Si chiama provincialismo coltivare il culto delle celebrità e stigmatizzare come poveracci coloro che fanno cultura in loco.
Le pubbliche amministrazioni dovrebbero incoraggiare e sostenere coloro che fanno cultura localistica


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Nella foto Elia Marcelli al tempo della campagna di Russia)

Anche chi fa cultura, individualmente o nell'ambito di associazioni, non è un alieno di Marte, e, quindi, spesso, è portato a scelte opportunistiche, dettate da un istinto di sopravvivenza. D’altronde in questa giungla disumana che è diventata la società italiana, regna la legge del più forte, del più furbo, del più disonesto.
Che la cultura di sinistra non abbia più quella carica ideale e quel carisma sulle masse che ha avuto tra il 1947 e il 1984, ossia tra la nascita dello stato repubblicano e la morte di Enrico Berlinguer, l’ultimo emblema di una palingenesi popolare e comunista, è un fatto ormai notorio.
Le motivazioni di questo decadimento, mi pare ovvio, non sono materia del mio intervento. Fatto sta che alla cultura di sinistra non è succeduta una cultura di destra. Se nel trentennio del secondo dopoguerra la case editrici Einaudi, e poi Feltrinelli ed Editori Riuniti, si sono imposte come le editrici di riferimento delle intelligenze di sinistra, oggi anche questo faro si è spento, e le maggiori editrici non si sono spostate a destra, ma hanno semplicemente perso una impronta politica.
Ritengo che come la sinistra politica oggi non abbia una idea “moderna” di cultura (anzi, sopravvive nel ricordo dei valori della resistenza, ormai assimilabili a quelli del risorgimento) così neanche la destra ha dei valori fondanti di cultura, avendo rinnegato, per opportunismo, quelli del fascismo. Il caso di Caffeina è emblematico di una situazione nazionale: l’organizzazione degli eventi pianifica una programmazione con diverse personalità di una sinistra nuova ed emergente, svincolata ai partiti; a destra non ci sono personalità tali da riempire le piazze, dal momento che le facce di Sgarbi, di Belpietro o di Bondi ributtano ai loro stessi simpatizzanti. E così, non già per spirito democratico, quanto di consenso popolare, si rubano nella galassia sinistrorsa dei nomi di valore quali Cristicchi e Saviano, anche con la furba speranza di attirare verso le amministrazioni di destra i simpatizzanti di sinistra.
Le facoltà dell’intelletto non sono di destra o di sinistra, ma oltre la contingenza della destra e della sinistra. Ritengo che i partiti - se ancora hanno un senso e dei valori - debbano fare in modo di usare la cultura per infettare di umanità gli individui, la gente, la massa o popolo come vogliamo chiamarlo. La cultura demagogica, strumentale e funzionale ai partiti, si chiama propaganda.
La cultura, nei paesi e nelle città di provincia, dovrebbe in minima parte sperperare le risorse economiche per mettere sul palcoscenico i nomi noti della cultura e dello spettacolo nazionale, giacché a questo, e con forse più lauti compensi, ci pensano le tivvù di stato e di parastato. Si chiama provincialismo coltivare il culto delle celebrità e stigmatizzare come poveracci coloro che fanno cultura in loco. Le pubbliche amministrazioni dovrebbero incoraggiare e sostenere coloro che fanno cultura localistica, che studiano la storia e le tradizioni del nostro territorio, i talenti che si manifestano nelle varie arti, dal teatro alla musica. Sono paradossali i festivals di teatro e musica che fanno a Fabrica di Roma, che non sono affatto di cattiva qualità, ma che sono di tipo passivo, ossia che incentivano la pratica dello “spettatore”, soprattutto forestiero, che viene, si siede, applaude e se ne va. E il giorno dopo, la settimana dopo, il mese dopo, l’anno dopo, il decennio dopo, la situazione culturale in loco è morta come sempre: niente soldi per creare una compagnia di teatro locale, niente soldi per gli studi di storia locale, niente di niente per sostenere gli artisti nativi. A Fabrica vi è nato, da genitori entrambi fabrichesi, un certo Elia Marcelli (1915-1998) cineasta e scrittore, che nessuno in provincia conosceva, finché l’estate scorsa il più noto cantante Simone Cristicchi, non ha recitato diverse strofe di un suo poema in ottava rima “Li Romani in Russia”, appunto nell’ambito degli incontri di “Caffeina”. L’amministrazione di Fabrica di Roma doveva dunque correre ai ripari dopo aver riso in faccia a quei due o tre saputelli che negli anni precedenti avevano provato a proporre di intitolargli una via o a celebrarne il ricordo. Invece niente di niente, l’indifferenza più totale. Ho portato questo esempio estremo perché credo che, riguardo alla cultura, la mentalità dei pubblici amministratori della nostra provincia non sia dissimile da quelli del nostro paese.

domenica 30 gennaio 2011

Arsenico e vecchie inerzie

l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’Agenzia internazionale di ricerca sul cancro(I.A.R.C.) ribadiscono: l’arsenico è un elemento cancerogeno certo di classe 1 ed ha una correlazione con alcuni tumori, come quello del polmone, del fegato, del colon; nonché responsabile di patologie cardiovascolari, ematologiche e del diabete.


Neanche la notizia e i dati allarmanti dell’acqua all’arsenico ha smosso più di tanto l’ignavia dei pubblici amministratori e la catalessi morale del popolo viterbese. Che in tutti e 60 comuni della Tuscia Romana i valori dell’arsenico, riscontrati nell’acqua degli acquedotti, siano di quattro o cinque volte superiori alla norma preoccupa e scandalizza soltanto quei cittadini che sono considerati ormai come i soliti menagrami. I viterbesi non vogliono sapere “de che morte dovranno morì”, tanto è la fine che ci aspetta a tutti, e se sia per un qualche tumore o per consunzione, che differenza può fare una decina di anni in più o in meno? Questa mentalità improntata alla fatalità non so bene se sia frutto di una millenaria dominazione della Chiesa, che ha educato il popolino al volere divino e alla provvidenza, oppure l’effetto del radom e di altri inquinamenti recenti sul sistema cerebrale. Se i parametri registrati nel patrimonio di San Pietro in Tuscia si fossero verificati in altri territori ci sarebbe stato come minimo un movimento spontaneo di mobilitazione di cittadini, col fine di risolvere o rimediare efficacemente al problema.

Ma andiamo con ordine e per i meno informati facciamo un compendio della questione.

Negli ultimi anni, a seguito di monitoraggio periodico delle fontane pubbliche da parte delle USL, i valori massimi stabiliti in 10 microgrammi per litro di arsenico dalla Comunità Europea sono risultati sballati in tutti i Comuni del viterbese. Il Governo italiano nel 2003 chiese alla UE di spostare i valori massimi a 50 microgrammi. La UE glieli accordò, col patto che i Comuni interessati prendessero delle soluzioni al riguardo. Siccome i Comuni non hanno preso alcun provvedimento ma sono ritornati più volte alla carica chiedendo altre deroghe, nei mesi scorsi la Commissione Europea ha bocciato ogni ulteriore deroga.

L’ ISDE di Viterbo (Associazione internazionale di medici per l’ambiente) lo scorso dicembre è stata ricevuta dalla Commissione ambiente della Regione Lazio. In tale contesto i medici Litta, Mocci, Ghirga hanno illustrato le problematiche sanitarie e ambientali correlate all’arsenico, richiamando l’attenzione sul fatto che se l’arsenico può derivare dalla conformazione geologica del territorio viterbese non va trascurata la componente da inquinamento per le attività industriali, come combustione per incenerimento e utilizzo massiccio di disserbanti in prossimità delle falde acquifere. E’ stata espressa grande preoccupazione per l’assunzione di acqua contenente arsenico in alcune fasce di popolazione più a rischio: donne in gravidanza, neonati, bambini, malati. La dottoressa Antonella Litta ha ribadito quanto già raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, e quanto stabilito dall’Agenzia internazionale di ricerca sul cancro (I.A.R.C.), ovvero che l’arsenico è un elemento cancerogeno certo di classe 1 ed ha una correlazione con alcuni tumori , come quello del polmone, del fegato, del colon; nonché responsabile di patologie cardiovascolari, ematologiche e del diabete.
Di fronte ad una acqua ritenuta scientificamente non potabile i Comuni avrebbero dovuto prendere delle soluzioni drastiche, come quelle di informare tutti i cittadini del pericolo, di vietarne l’uso alimentare, di rifornire i cittadini di acqua potabile, di defalcare le bollette idriche, di rimborsare i cittadini. Ma solo alcuni probi comuni l’hanno fatto, o stanno prendendo delle iniziative seppure tardive. A Corchiano distribuiscono già dalla scorsa estate acqua microfiltrata e senza cloro; a Civita Castellana hanno messo delle fontanelle removibili di acqua minerale nelle scuole e ne piazzeranno altre in ogni quartiere. A Vitorchiano sembra che hanno già firmato un contratto per l’acquisto di un macchinario di dearsenificazione. Anche il Presidente della Provincia di Viterbo ha promesso di acquistare diversi dearsinificatori quanto prima. Ecco, proprio questa soluzione, che dovrebbe essere la più efficace per rendere potabile l’acqua, stenta ad entrare nelle delibere comunali. Eppure la Regione Lazio ha messo in bilancio 10 milioni di euro per l’acquisto di tali macchinari..

In controtendenza il 14 gennaio 2011 il Sindaco di Fabrica di Roma ha diffuso una ordinanza con la quale consigliava di non bere acqua nella zona del Parco Falisco, poiché risultata con valori di arsenico superiori ai 50 microgrammi e di approvvigionarsi nelle fontane con valori sotto ai 50 microgrammi, ben al di sopra dei valori fissati dalla UE.

Sensibilissimi all’argomento i grilli Viterbesi stanno prendendo delle iniziative concrete, perlomeno per far conoscere il pericolo, e ieri, sabato 29 gennaio, presso la libreria "Mondolibri" in Viterbo hanno organizzato una affollata Conferenza pubblica, alla quale hanno partecipato la dottoressa Litta ed altri esperti.

Alcune associazioni di consumatori, consce della problematica, stanno avviando dei ricorsi collettivi contro i Comuni che, a causa della loro inerzia, costringono le famiglie a rifornirsi quotidianamente di acqua minerale.

E non potevano mancare i soliti “napoletani pataccari”, che, nella provincia di Latina, sebbene la presenza di arsenico nelle acque sia minore di quella del viterbese, hanno approfittato della nascente psicosi per rifilare a famiglie ingenue dearseneficatori fasulli.

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mercoledì 15 dicembre 2010

Natale 1979

Improvvisamente un povero cristo ubbriaco si fece largo a spinte, rovesciò la bussola delle offerte, afferrò un mucchio di cartamonete, ci sputò e le lanciò in aria.


Il 24 dicembre 1979 passai la notte alla stazione Termini di Roma. Avevo poco più di vent’anni, e non ricordo esattamente da quale viaggio tornassi. Era tardi, il grande orologio metallico segnava le ore 21,15 e non c’erano più corse per il mio paese, l’ostello della gioventù aveva esaurito i posti e non avevo più una lira per potermi pagare un albergo. Ero stanco, senza nulla di buono su cui fantasticare, e desideravo solo ritornare a casa col primo treno locale del mattino.
V’era folla quella notte, moltitudine di gente che scendeva dai treni o partiva, i più giovani con gli zaini sulle spalle, i meno giovani con le valigie, le borse a tracolla, i pacchi, i fagotti. Erano quasi tutti allegri, vivaci, in compagnia di amici o parenti che li abbracciavano se erano tornati, o li salutavano calorosamente se partivano. Un gruppo di ragazzi nordici, dai lunghi capelli incolti e i giacconi larghi, s’era disteso dietro le porte, abbracciati a coppie, e si scambiavano di tanto in tanto teneri baci. Rari uomini o donne singole giravano per l’atrio, oppure sedevano nelle seggiole dei pochi bar aperti, guardando malinconicamente la gente che passava.
Camminavo lento, trascinando il mio zaino, guardando incuriosito quella variegata umanità generalmente piccolo borghese, come si diceva allora. Poche le persone che apparivano particolarmente facoltose; poche le facce da immigrati. Qua è là si poteva notare una vecchia pitturata baldracca, oppure il giovane che vive di espedienti o furtarelli, il gay in cerca di avventure.
Fui attratto da un capannello di persone. Ammiravano tutti una specie di altare, sulla cui sommità il circolo dei ferrovieri aveva allestito un presepe. Qualche donnetta si faceva largo e metteva un’offerta nella bussola. Gli uomini d’affari si soffermavano un momento, estraevano il portafoglio e lanciavano le loro banconote verso i primi gradini. I più commentavano la bellezza del presepe, anche se non aveva nulla di originale, dicendo che la grotta con i bovi e l’asinello sembrava vera, peccato che la culla di Gesù con Giuseppe e Maria rimaneva un po’ nascosta. Improvvisamente un povero cristo ubbriaco si fece largo a spinte, rovesciò la bussola delle offerte, afferrò un mucchio di cartamonete, ci sputò e le lanciò in aria. Gridava preghiere e bestemmie verso Gesù. Un ferroviere che faceva il turno al presepe lo afferrò per il colletto e lo trascinò via, non prima di averlo stordito con due schiaffi.
Continuai a camminare per l’atrio, incuriosito da tutte le facce, dietro le quali si celava una storia, un racconto, una vita. Ai sedili di marmo delle biglietterie chiuse c’era un ragazzo che leggeva un libro, aspirando furtivamente uno spinello; una donna anziana si era tirata su il cappotto e la gonna per aggiustarsi le calze; un signore distinto scrutava i passanti con un ghigno da assassino; un altro si asciugava un ciglio degli occhi, non so se per la stanchezza o qualche incontenibile nostalgia. Per un momento provai la sensazione di essere seguito da tre brutti ceffi con gli occhiali scuri. Forse la stazione pullulava di finti viaggiatori che circondavano le persone con l’intento di derubarle. Forse altri astanti erano agenti in borghese.
Quando entrai nei bagni vidi la parete degli orinatoi occupata da tipi loschi che esibivano il loro membro, oppure facevano finta di pisciare per spiare quello del loro vicino e cercare dei contatti. Andai ai gabinetti e misi una gamba più indietro, a rinforzo della porta, onde sbarrare l’accesso di un qualsiasi estraneo. Ma non feci in tempo ad uscire che un cinquantenne con la faccia da ragazzo malizioso mi offrì di passare il Natale a casa di amici. “Sto partendo” gli risposi brusco, e per evitare altri approcci mi diressi verso un treno, senza però salire. Quel tizio era sparito. Un vecchio che veniva avanti sorreggendosi sulle stampelle per un momento traballò e quasi mi cadde ai piedi, e siccome lo aiutai a rimettersi in sesto non la finiva più di ringraziare e lodarmi nel nome del Signore.
Ritornai nell’atrio, e andai a cercare un posto a sedere nelle sale d’aspetto. Queste erano così affollate di gente che dovetti aspettare un bel po’ prima che si liberasse un posto. Ero così stanco che non appena mi misi seduto e chiusi gli occhi caddi addormentato…
…mi pareva che stavo in paese, davanti al cinema, e dovevo attraversare la strada ma non ce la facevo, le mie valigie erano troppo pesanti e dalla curva poteva spuntare una macchina, e si era avvicinata una persona, di cui non riuscivo a vedere il volto, che mi voleva sfilare il bagaglio, e la voce di un altoparlante annunciava la partenza per Parigi.
Nel sogno capii di sognare. Avevo allentato la presa del mio zaino, che era scivolato a terra. Una vecchia malvestita mi stava davanti, in piedi, guardandomi con stupore. L’annunciatore dei treni ripeteva la partenza per Parigi. L’orologio segnava le 23,35. Allora volsi lo sguardo altrove e mi accorsi che durante il sonno qualcosa era cambiato nella sala d’aspetto. Come negli stabilimenti balneari quando alla sera le spiagge si svuotano e al posto dei bagnanti rimangono i loro simulacri in forma di rifiuti – lattine, cartacce, buste di plastica – così, in quella sala d’aspetto, partita la folla dei viaggiatori, il posto si era riempito di rifiuti umani: volti e corpi dall’indubbio aspetto di barboni, sbandati, dementi. Una puzza di corpi non lavati e malati gravava nel locale, e, insieme al fumo, lo rendeva irrespirabile. Regnava uno strano, patologico silenzio, interrotto ogni tanto da qualche frase insensata, un grido, un colpo di tosse catarrosa.
La cosa più spontanea che mi venne di fare fu quella di alzarmi, anche perché un disgraziato mi aveva appoggiato il capo alla spalla e il suo fetore mi sollecitava al vomito. Quasi corsi verso l’uscita, ma poi mi fermai e mi girai per guardar meglio quello strano girone infernale. Tutti i sedili erano occupati da reietti, accattoni maschi e femmine, vestiti di cenci, con scarpacce consunte, i capelli unti e spettinati. Qualcun altro stava seduto o sdraiato in terra, lungo le pareti o in mezzo allo stanzone. Quelli che dormivano ogni tanto fiottavano, agitavano le membra; quelli che stavano desti fumavano, tutti con un aria per niente tranquilla, con occhi pieni di odio o terrore, alcuni altercando con le ombre. Notai un signore che sembrava avere una aria perbene, ben pettinato e rasato, adorno di un cappotto marrone scuro, se non fosse stato per un paio di stivaloni da lavoro che calzava; teneva sulle ginocchia un gran cesto natalizio, da cui spuntavano torroni e bottiglie di spumante. Come io guardavo questa sciagurata umanità così sorpresi uno di quelli a guardarmi fisso, con una espressione sprezzante, come se volesse accusarmi da un momento all’altro di essere una spia, un nemico.
Entrò una ragazza scalza, i piedi neri di loto e ricoperti di piaghe, vestita di logori mutandoni maschili, una maglietta sudicia ricoperta da una giaccaccia sbrindellata. Teneva una sigaretta tra le labbra peste, e aspirava il fumo, alternando il gesto a quello di morsicarsi le unghie, con un tormento che doveva procurarle piacere. Aveva lo sguardo di una bestia braccata. Si fermò un poco al mio lato, così vicino che non potei non sentire la puzza rigettante del suo corpo, dei suoi stracci che avevano assorbito lo sporco e l’unto rancido dei luoghi in cui aveva dormito.
Un africano alto e magro, che finora stava assopito, improvvisamente scattò in piedi urlando: “Assez! Assez! Me laisser!” Ripeté il grido due o tre volte; poi sbottò in una risata atroce; poi si rattristò; poi s’alzò il bel loden verde, che indossava fin sopra la testa, e così uscì. Un uomo si era attanagliato alla vetrata, strisciando molto lentamente, il capo rivolto al soffitto. Un altro con la faccia da alcolizzato, gli occhi mezzi socchiusi, si alzò in piedi, fece due o tre passi barcollanti e poi crollò in mezzo alla sala, con le braccia spalancate come un morto. Dopo qualche minuto invece tirò su la schiena, rimanendo seduto e cercando di raggiungere con una mano il piede opposto.
La ragazza intanto aveva cominciato a farneticare. Diceva confusamente di amori finiti nell’odio, di uomini che aveva conosciuto e l’avevano lasciata incinta. La guardai a lungo negli occhi, e lei, accortasi di questo mio sguardo, alzò il dito indice accusandomi: “Sei tu che m’hai scopato! Che m’hai scopato e nemmeno m’hai detto grazie!” Volsi lo sguardo altrove, ma siccome la poveretta continuava nelle accuse, facendo finta di nulla, mi approssimai alla porta. Nello stesso momento entrarono tre poliziotti. Lei girò le accuse e l’indice verso uno di quelli, e il milite le afferrò le mani nelle sue mani guantate e la tenne immobile finché non riuscì a calmarla. Gli altri poliziotti facevano il giro del locale, battendo le mani per far rumore e destare i dormienti: “Avanti, è ora di uscire, è quasi mezzanotte e fra poco nasce il bambino!” Quelli che non davano segni di risposta e continuavano a stare nel loro posto, venivano presi e messi in piedi a forza. Se qualcuno si mostrava particolarmente pigro o recalcitrante veniva afferrato e trascinato fuori. In poco tempo il locale fu liberato, e un operaio sopra una macchinetta mobile passò a lavare e disinfettare.
Avevo osservato le operazioni di sgombero nascosto dietro una edicola chiusa. Agli occhi della Polizia non volevo certo dimostrare di far parte del povero branco di reietti, ma nello stesso tempo non volevo allontanarmi del tutto e avrei voluto sapere dove la folla di sciagurati avrebbe trovato rifugio. La Polizia li cacciava non solo dalla Sala d’Aspetto, ma dalla stessa stazione, dove i mendicanti almeno potevano disporre di un tetto, con forza se qualcuno provava a protestare. L’uomo col cesto natalizio, che si era messo sul capo come le popolane di una volta, in perfetto italiano supplicò un agente:”Se ci cacciate via dove… dove possiamo andare a festeggiare il Santo Natale…”
Il branco di reietti si ritrovò all’aperto, muto, senza neanche provare a concordare un programma comune. Per un po’ stettero fermi, addossati ad una siepe che li riparava dal freddo, ma quando si accorsero che le mani e i piedi si ghiacciavano, scompostamente, sempre muti e sciatti, si avviarono ognuno per proprio conto verso improbabili rifugi.
L’alto africano tirò fuori la faccia dal loden ed urlò:”Aller, aller!” cominciando a correre a zig zag, la testa alta come una gazzella. La ragazza dai piedi scalzi le corse appresso chiamandolo:”Jean Paule, mon amour!” L’uomo che camminava rasente i vetri procedeva in modo laterale, tenendo le palme delle mani in avanti, come avesse avuto un muro davanti a sé. Gli altri strascicavano i piedi, lenti, a capo chino, senza sapere dove andare, nella improbabile speranza di trovare un sottoscala, un buco, un qualsiasi riparo. Un ometto dalla pelle liscia di bambino, che prima non avevo notato, mi urtò il gomito: teneva al collo quattro o cinque pentole legate con lo spago, e camminando le cazzeruole sbattevano le une contro le altre, dando origine ad una primitiva musica.
Seguii per un tratto l’ometto, curioso di sapere dove andasse a riparare, quando calmò il vento e un leggero nevischio prese a scendere piano. Questa novità mi spinse verso piazza dell’Esedra. A quell’ora pochi passanti e rare macchine circolavano. Le strade, gli alberi, i bus parcheggiati cominciarono a coprirsi di un velo bianco. Raggiunsi via Nazionale, con le luminarie a luci intermittenti, i tappeti rossi sui marciapiedi, i vasi con gli abeti inghirlandati di festoni e palle color oro. Non c’erano appartamenti abitati in quella via, e non si sentivano voci di festeggiamenti in famiglia. Nelle vie laterali ogni tanto apparivano le insegne di alberghetti. Un grande hotel, prima del Museo d’Arte Moderna, teneva un vigilante in alta uniforme sul portone, impassibile come una statua. Mi sarebbe piaciuto arrivare a piazza Venezia e trovare l’Altare della Patria ricoperto di neve. Invece, proprio di fronte al Museo delle Cere, il nevischio divenne acqua e la temperatura addolcì. Deviai per via del Corso. Nelle viuzze laterali si notavano gruppetti familiari che tornavano a piedi dalla messa di mezzanotte, uniti sotto gli ombrelli. Prosegui ancora a piccole corse tra un portone e l’altro, finché non giunsi alla Galleria Colonna, il posto ideale per fermarsi a passare la notte, come d’altronde avevano fatto altri giovani, singoli o a gruppetti, dall’aspetto di artisti stranieri, sdraiatesi nei loro sacchi a pelo davanti alla pasticceria chiusa. Io mi appoggiai alla base di una colonna, con la faccia rivolta all’obelisco di piazza Montecitorio. Non faceva più freddo, e per quanto stremato mi parve che non dovessi addormentarmi. Invece mi riscossero le campane di non so quale chiesa alle prime luci dell’alba.

Gualdo Anselmi (scritto degli anni '80)